Treni a levitazione magnetica
«Ogni volta che si subisce qualcosa in conseguenza di un’azione, il sé è modificato […]. Si costruiscono atteggiamenti e interessi che incarnano in loro stessi qualche residuo del significato di cose fatte e subite. Questi significati consolidati e conservati diventano parte del sé. Costituiscono il capitale con cui il sé osserva, si prende cura, fa attenzione e si propone» (Dewey, 2007).
La crescita fisica e lo sviluppo emotivo ed intellettuale di
ogni essere umano non possono che avvenire sul campo, all’interno di un background
più o meno ampio in cui il soggetto si muove, compie azioni, si interfaccia con
altre persone, con le cose, con un universo di elementi che a seconda del punto
visuale assumono significati differenti veicolando lezioni e insegnamenti da
declinare a nostro piacimento.
L’apprendimento passa, così, attraverso la materia e lo
spazio vuoto che la accoglie (contenendola), attraverso parole e silenzi,
attraverso attività e omissioni, dando vita ad un processo autopoietico,
inarrestabile e infinito che regala ai singoli gioie e dolori, speranze, certezze
e soprattutto, forse, l’illusione di percepire il tempo come un’unità di misura
cangiante e inaffidabile che si dilata e si restringe in funzione del nostro
umore.
Curiosità e conoscenza sono due magneti dai poli opposti che
ci fanno fluttuare su delle rotaie parallele dalle quali è impossibile scendere:
possiamo solo settare velocità e destinazione o, al massimo, ridipingere,
quante volte vogliamo, i nostri vagoni per costruire e costituire, dandole
cittadinanza, quella (presunta?) unicità capace di farci sentire speciali e
irriducibili.
Più ci si allontana dagli standard, però, più si rimane soli.
Più si cerca di regalare dignità al proprio sentire, al proprio modo di
percepire quelle azioni e quelle omissioni portatrici di istruzioni, più si
rischia di non essere capiti, di non essere accettati, di essere banalizzati e
distrutti da un mos maiorum che da evidenza statistica viene con faciloneria
elevato a Grundnorm.
Esternare vuol dire dilaniare quel velo di riservatezza che
tiene al sicuro la nostra anima isolandola dal resto della comunità. Esternare
vuol dire «assumersi il
rischio di una scelta e servirsi addirittura di parole proprie» (Carmen
Consoli). Esternare vuol dire affermarsi, conquistare un lotto di terra ed
erigere architetture splendidamente artificiali e intimamente umane.
Apprendere vuol dire rischiare di ferirsi e di farsi male, vuol dire distruggere quel che si è per fare spazio e posto ad una nuova versione di noi stessi molto più pesante e ingombrante. Apprendere vuol dire selezionare con cura quali bagagli portare con sé e quali abbandonare perché, è bene ricordarlo, ciò che a volte, e per lungo tempo, ci sembra fonte sicura di conoscenza, spesso si rivela semplice ed inutile zavorra.
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