L'orizzonte degli eventi


Non tutte le storie possono essere raccontate partendo dall’inizio, soprattutto quando i primi capitoli di questi racconti sono andati persi nelle infinite pieghe del tempo e di essi non sono rimasti che frammenti intrappolati nelle menti di vecchi aedi erranti.

Sollen, dopo tanto tempo, era di nuovo felice e spensierato. Forse non era mai stato davvero sereno in vita sua, o se così era stato non ne aveva ormai memoria: un lavoro modesto, appena sufficiente per far sì che potesse vivere dignitosamente, senza troppi lussi ma senza significative rinunce; una famiglia amorevole e comprensiva che lo aveva fatto sentire parte di qualcosa di più grande; degli amici fraterni, costanti e rumorosi come le ticchettanti lancette di un orologio a pendolo.

Non amava i rischi Sollen, e si teneva a debita distanza dalle sorprese. Viveva in una dimensione in cui ogni vettore emotivo correva verso la medesima direzione, attraversando una linea retta e corretta, priva di asperità, semplice, pazientemente levigata dall’esperienza e da cocenti delusioni. L’unico azzardo che, di tanto in tanto, si concedeva, era quello di lasciarsi affabulare dalle meravigliose trame sussurrate da libri polverosi o da vecchi film con Patrick Swayze.

Era una persona saggia il nostro Sollen, e molto spesso si era dimostrato capace di elargire brillanti consigli, tranne, però, quando si trattava di storie d’amore; in quel caso, infatti, finiva sempre per cadere nella stessa trappola: la sua patologica volontà di razionalizzare i sentimenti (praticamente…un ossimoro). Per Sollen quasi tutto poteva essere risolto ricorrendo alle regole del bilancio perché, a suo dire, bastava calcolare cosa offrire e cosa richiedere in cambio per arrivare al pareggio; ogni relazione, per lui, altro non era che un’analisi costi/benefici che (e non c’è da sorprendersi) finiva sempre per essere risolta per eccessiva onerosità sopravvenuta, come se si trattasse di un contratto con il sinallagma sballato. E così amare o, peggio, lasciarsi amare, per lui non aveva alcun senso.

Sollen si sentiva spesso dire che era un grande egoista e che sarebbe rimasto solo se non avesse cambiato atteggiamento nei confronti dell’amore. Lui, in realtà, non aveva questo timore visto che aveva sposato, con una certa convinzione, la sua singolarità. In più non si sentiva mai davvero “solo”… ma come avrebbe potuto d’altronde? Era circondato da così tanto calore che a volte sentiva persino il bisogno di ascoltare solo il silenzio e di bearsi del rumore prodotto dal nulla.

Non era sempre stato così. In passato anche lui aveva amato irrazionalmente e profondamente, si era lasciato conquistare da quel retaggio culturale che ci vuole felici solo nell’essere la metà di una mela in cerca del proprio complementare completamento. Poi, come succede a tutti, è arrivata, puntuale come la tisi nelle operette liriche, la prima grande delusione e, semplicemente, si era arreso, aveva staccato la spina, così da non correre più rischi. Secondo lui aveva perfettamente funzionato.

Sollen era certo di essere molto felice perché non poteva proprio permettersi di non esserlo! Si sarebbe sentito tremendamente in colpa altrimenti visto che una persona che ha tutto non è degna di star male; pretendere che qualcuno lo amasse, lo apprezzasse o lo sorreggesse rappresentava una insopportabile forma di superbia che non era disposto a metabolizzare.

“Dover essere”: questo voleva dire il suo nome, e su questa etimologia aveva improntato tutta la sua esistenza, modellandola con una cura maniacale che lo aveva sfinito e portato ad arredare il suo ego con pochi mobili, tutti di colore chiaro, adornati da qualche suppellettile in acciaio cromato, lucido e freddo come le luci che adorava tanto.

Sollen si sentiva un paladino, un po’ come un Orlando innamorato, sì... non di una donna però, ma del semplice senso di pace e di quiete: si negava i sentimenti per far sì che essi restassero puri e incontaminati come le acque di fiume amazzonico.

Gli esseri umani, e lui lo sapeva bene, spesso sporcano, con le loro parole imperfette e le loro voglie passeggere, idee che non dovrebbero mai essere insozzate da tanta animalesca brutalità. Gli “amori belli”, d’altronde, come diceva sempre, esistevano eccome, solo che erano molto più rari e meno abbaglianti di quanto certuni credessero o (peggio) volessero, ipocritamente, lasciare intendere: il più delle volte, lo si sa, le relazioni si basano sulla semplice paura di invecchiare e morire da soli e non sulla sacra volontà di far arretrare i propri bisogni in vista di quelli di un altro essere umano. Provare qualcosa di simile ti eleva e ti rende migliore; credere di provarlo, invece, ti rende solo banale, e se c’era una cosa che Sollen odiava più delle acciughe nella pizza era proprio la banalità.

La paura di tornare ad “essere”, di trasformarsi da Sollen in Sein, può pietrificarci tanto da spingerci a fare come il protagonista di questa storia il quale, giorno dopo giorno, senza chiedere il permesso a nessuno, ha iniziato a murarsi vivo dentro un giardino segreto pieno di piante rigogliose, verdi e profumate, ma del tutto privo di organismi biologicamente simili a lui.

Sollen non solo era incapace di vivere con leggerezza, reputandola insopportabile, ma aveva anche rinunciato ad ogni forma di speranza, dimenticando persino cosa fosse. Sollen era felice perché aveva condannato se stesso a vivere, da recluso, un ergastolo di gioie su misura inevitabili ed ineludibili come un tenace orizzonte degli eventi.

"Lo stagno delle ninfee, armonia verde", Monet, 1899.

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