Parvenza

"Quando io adopero una parola - dice Humpty Dumpty in tono d'alterigia - essa ha esattamente il significato che io voglio dare...né più né meno. 
- Bisogna vedere - osserva allora Alice - se voi potete fare in modo che le parole indichino cose diverse. 
- Bisogna vedere - ribatte Humpty Dumpty - chi è che comanda...ecco tutto."
(L. Carrol, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò).

Chi è che comanda? Cos'è che conta e che prendiamo maggiormente in considerazione: quello che siamo o quello che fingiamo di essere? La realtà o la finzione? La sostanza o la forma? Il contenitore o il contenuto? Il "sein" o il "sollen"?

In pochi hanno il coraggio di esistere in perfetta consonanza con quel che sono in realtà; molti, la maggior parte, preferiscono, per timore di non essere apprezzati, adattarsi ed essere conformi ad una silenziosa e comoda "normalità" (fatta di preferenze, di azioni, di idee) accettata dai più. 

Da cosa dipende tutto ciò? Semplice: dal nostro ossessivo ed egoistico bisogno di essere amati. 

Leggo spesso sui social, nelle bio di presentazione di aspiranti Shakespeare 2.0, la frase: "Amo l'amore". 
Premesso che ormai è più inflazionata del marco tedesco subito dopo la Grande Guerra e premesso che se proprio si vuol giocare a fare i fighi con le figure retoriche ce ne sono, a mio avviso, tante altre ben più belle ed eleganti (vedi l'enjambement o la sineddoche), cosa vuol dire esattamente amare l'amore? Nella maggior parte dei casi denota e descrive l'atteggiamento, patologico, di spasmodico screening dei propri simili atto a trovare un "qualsiasi qualcuno" che sia disposto, anche dietro eventuale compenso, ad accoppiarsi (non solo sessualmente) con l'affaticato ricercatore.

Spesso ad amare l'amore sono proprio coloro che sono pronti a modificare geneticamente persino la più intima radice del proprio "io", in modo da evolversi in un organismo cerebrale che prima non esisteva (e che forse non avrebbe mai dovuto vedere la luce). 

Vi starete chiedendo cosa c'è di male in tutto ciò, perché non ha senso in fin dei conti adattarsi e fingersi diversi da ciò che si è per trovare più facilmente un "partner da compagnia"...semplice: quello che otterrete alla fine della ricerca non è amore, ma un surrogato artificiale che potremmo definire, tutt'al più, "parvenza".  

L'amore, quello vero, quello che non sia un O.G.M. dalle dubbie proprietà organolettiche, non si cerca, lo si vive perché semplicemente e miracolosamente "capita". 

L'amore piove dal cielo, come un acquazzone improvviso ed imprevisto che ci inzuppa abiti ed anima annientando ogni certezza ed ogni difesa; l'amore ci acchiappa, ci solleva e ci fa cadere giù, ma purtroppo non può essere afferrato o fermato perché l'amore è un fantasma impalpabile ed onnipotente; l'amore è spesso sleale e disonesto, va e viene, senza rancore e senza ricordi; l'amore non si lascia ingannare da quel che cerchiamo di essere perché sa perfettamente chi siamo e cosa vogliamo; l'amore non si lascia turlupinare dalle nostre parole, da quei "no" che pronunciamo per intendere "sì", da quei "per sempre" che non valgon niente, da quella incoerenza sintattica che usiamo come scudo per difenderci dai pericoli; l'amore, se è davvero tale, ci sorprende e ci spaventa; l'amore vive mimetizzato e nascosto tra la folla; l'amore è arte astratta...e resta in piedi anche quando le sue radici crescono all'incontrario, anche quando le sue fronde sopravvivono bramando il buio, anche senz'acqua e senz'aria, anche in orbita, persino sull'orizzonte mortale di buco nero.

Insomma...da "amare l'amore" ad "aver paura di star soli", a ben vedere, il passo è breve, e si tratta di un passo che solleva un polverone fatto di tristezza, falsità e miseria.

Spesso non teniamo in considerazione le fattezze e le qualità dei tributi che sacrifichiamo sull'altare della normalità: amiamo l'amore e temiamo la solitudine, ecco perché siamo disposti a sradicare dal nostro organismo così tante appendici non-necessarie da trasformarci in "prodotti in serie" plastificati facilmente sostituibili e rimpiazzabili. 

A forza di sminuirci continuamente e di banalizzare la portata delle nostre "specialità", finiamo con il dimenticarci chi siamo e con il trasformarci in ombre grigie che nessuno, nemmeno il più azzurro fra i principi, riuscirà a salvare: le streghe cattive albergano nel nostro essere e si nutrono della nostra paura di accettare quelle piccole stranezze che fanno di noi un irripetibile microcosmo accessibile solo agli astronauti più coraggiosi, più forti ma soprattutto più curiosi.

IL DOPPIO SEGRETO (1927)
René Magritte (1898-1967)
Pittore belga
Museo Nazionale d’Arte Moderna – Parigi
Tela cm. 114 x 162

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