Parole alla deriva

Il vero problema è che spesso utilizziamo parole delle quali non conosciamo il reale significato. 
Si tratta, il più delle volte, di termini semplici, di uso comune, che noi farciamo di contenuti del tutto personali ed, in quanto tali, decisamente opinabili. 
È vero che un lemma può esprimere molti concetti, ma è davvero tutta colpa della polisemia? O molto più semplicemente si tratta della nostra costante leggerezza nell'approcciarci alla lingua italiana? 

Spesso è difficile intendersi semplicemente perché non ci si accorda sul cosa voglia dire un dato termine. La metà dei miei litigi sono infatti, a ben vedere, scontri sulla semantica che la maggior parte delle volte mi vedono soccombere, per sfinimento, innanzi alle salde ed inattaccabili certezze altrui. Parlare e spiegarsi è complicato quando il tuo interlocutore ti osserva dall'alto di una cittadella fortificata e, per di più, priva di porte o senza scale. 

Onde evitare di trasformarmi in ciò che aspramente critico mi son chiesto se non fosse il caso di "ripartire dal Via" e di ripassare il significato comune di certi vocaboli. 
A voi offro il risultato di questa mia ricerca (svolta sul sitto www.treccani.it) che sono certo potrà incuriosire i pochissimi, fra voi, che nonostante la mia latitanza continuano ad apprezzare e gradire i miei ormai rari spunti di riflessione. Buona lettura.

Gelosìa s. f. [der. di geloso]. – 1. a. Stato emotivo di dubbio e di tormentosa ansia di chi, con o senza giustificato motivo, teme (o constata) che la persona amata gli sia insidiata da un rivale: sentire g., soffrire di g.; essere roso,tormentato dalla g.; fare una scena di gelosia. È distinta dall’invidia in quanto quest’ultima è il sentimento di chi desidera cosa posseduta da un altro, senza che in questa rivalità sia coinvolta una terza persona. b. Per estens., risentimento che si prova nel vedere che altri ci è preferito o che ad altri è concesso un affetto o un vantaggio che vorremmo per noi stessi: anche i bambini soffrono di gelosie; ha g. della sorellina; e di animali: il cane mostra g. quando vede il padrone accarezzare un altro cane. c. Con altro uso estens., rivalità, desiderio d’emulazione, invidia: la g. de l’amico fa l’uomo sollicito (Dante); provare g. per i successi altrui; destare le g. dei compagni, dei colleghi; g. di mestiere. d. ant. Sospetto, timore: per g. di perdere la fortezza, vi venne Castruccio in persona (G. Villani). e. non com. Cura attenta e affettuosa, scrupoloso riguardo: custodire con g. un ricordo carissimo. 2. a. Serramento di finestra – realizzato con stecche inclinate disposte in un telaio fisso o mobile (persiana), con stecche fitte incrociate (grata) o anche con lastre di legno o di metallo traforate – che permette di guardare dall’interno senza essere visti dall’esterno (il nome si spiega col fatto che l’origine sarebbe dovuta a motivi di gelosia, in quanto tale sistema permette alle donne di stare alle finestre togliendole però alla vista degli estranei). In alcune regioni, il termine indica la sola parte inferiore della persiana che si alza e si abbassa per dare più o meno luce. b. Con riferimento al tipo di finestra fatto con stecche incrociate, il termine è stato largamente usato in passato (da solo o nella locuz. agg. a gelosia) con il sign. generico di graticcio, graticola, graticolato, anche per indicare determinati oggetti così conformati, oppure ornamenti e decorazioni a graticolato (maniche a gelosia, nell’abbigliamento rinascimentale, bicchieri decorati a gelosia, ecc.). È ancora così chiamato, ma sempre più raramente, il graticolato di canne o di pali sul quale si adattano i rami di piante allevate a spalliera.

Amicìzia s. f. [dal lat. amicitia, der. di amicus «amico»]. – 1. a. Vivo e scambievole affetto fra due o più persone, ispirato in genere da affinità di sentimenti e da reciproca stima: a. profonda, pura, disinteressata (o, al contrario,interessata, superficiale o apparente, e dichiarata o mantenuta soltanto per l’utilità materiale o il vantaggio che se ne può trarre); a. falsa, incostante, ecc.; vincoli, legami di a.; fare, stringere a., legarsi d’a. con qualcuno, meno com.stringersi in a. con qualcuno; coltivare l’a. o un’a.; rompere, guastare l’amicizia. Con sign. più ampio: a. tra due città, tra due paesi; trattato di a., tra due stati. Locuz. particolari: in a., con la libertà e franchezza che l’amicizia consente ed esige: te lo dico in tutta a.; per a., disinteressatamente: lo fece per pura a.; non più in uso la locuz. a. di saluto, di cappello, nient’affatto intima, limitata alle convenzioni esterne; prov., patti chiari, a. lunga. b. Con valore allusivo, e spesso eufemistico, relazione amorosa, anche fra persone dello stesso sesso: in paese si era saputo di quella sua a.; a.particolari (anche con riferimento a Les amitiés particulières, titolo di un romanzo dello scrittore fr. R. Peyrefitte, del 1944), relazioni omosessuali. 2. concr. Amico, amici: avere poche, numerose a.; uomo di molte a.; guàrdati dalle a.pericolose.

Òdio s. m. [dal lat. odium, der. di odisse «odiare»]. – 1. Sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui; o, più genericam., sentimento di profonda ostilità e antipatia: concepire, nutrire, covare o. contro qualcuno; portare o. a qualcuno; avere in o. qualcuno o avere qualcuno in o.; prendere in o. qualcuno, cominciare a odiarlo; essere, venire in o. a qualcuno (fig., essere in o. ai numi, alla sorte, al destino, averli nemici, essere sventurato;essere in o. a Dio e agli uomini, essere perseguitato, malvoluto da tutti); o. cieco, bestiale, feroce, accanito, mortale,implacabile; essere spinto, animato da o.; essere accecato dall’o.; aizzare, fomentare gli o. (tra famiglie, fazioni, ecc.);rivalità di mestiere che generano o.; il suo amore si mutò in o.; I0 parlo per ver dire, Non per o. d’altrui né per disprezzo(Petrarca); vieni, e vedrai con chi tu potevi tener o., a chi potevi desiderar del male (Manzoni); E quest’o. che mai non avvicina Il popolo lombardo all’alemanno (Giusti); parole, discorsi, scritti, sguardi pieni di o.; fare qualche cosa in o. a qualcuno, per ostilità che si prova verso di lui, quindi agire a suo danno; fig., in o. al vero, in o. alla legge, contro la verità, contro la legge. Per estens., avere in o. sé stesso, essere in o. a sé stesso, condannare severamente il proprio operato, non avere per sé e per la propria vita il naturale amore: E ho in o. me stesso, e amo altrui (Petrarca). In partic., o. di classe, l’ostilità e l’avversione tra le diverse classi sociali, e soprattutto tra la classe meno abbiente e quelle privilegiate;o. del popolo, traduz. della formula lat. odium plebis, espressione del diritto canonico che indicava l’avversione e il disprezzo della collettività dei fedeli verso chi ne aveva la cura spirituale, cioè il parroco; in o. all’autore, traduz. della formula lat. in odium auctoris (v.). 2. a. Con sign. attenuato, senso di ripugnanza, di contrarietà, d’intolleranza per qualche cosa, per cui si cerca di evitarla, di sfuggirla: avere in o. le chiacchiere, i convenevoli, le cerimonie; Quelle fiere selvagge che ’n odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi cólti (Dante). b. letter. La giusta avversione, e quindi la condanna morale, del male: D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista, Ingiuria è ’l fine (Dante). 3. Con sign. concr., persona, cosa o elemento che è oggetto di profonda avversione, di totale rifiuto e sim.: avevo due anni ... e già un o.: la minestra, tutte le minestre (Palazzeschi).

Invìdia s. f. [dal lat. invidia, der. di invĭdus: v. invido]. – 1. Sentimento spiacevole che si prova per un bene o una qualità altrui che si vorrebbero per sé, accompagnato spesso da avversione e rancore per colui che invece possiede tale bene o qualità; anche, la disposizione generica a provare tale sentimento, dovuta per lo più a un senso di orgoglio per cui non si tollera che altri abbia doti pari o superiori, o riesca meglio nella sua attività o abbia maggior fortuna (nella dottrina cattolica, è uno dei sette vizî capitali, direttamente opposto alla virtù della carità): avere i. di qualcuno o contro qualcuno (letter. a qualcuno); sentire, provare, portare i.; crepare d’i., essere roso dall’i., in frasi allusive a qualcuno che ha invidia di noi o di persona a noi amica, o comunque con senso di soddisfazione: crepava d’i., o si rodeva dall’i., ogni volta che mi vedeva in sella alla mia fiammante motocicletta; destare i. in qualcuno; il tarlo dell’i. (il tormento che prova l’invidioso); il dente, il morso dell’i. (l’effetto corrosivo che hanno le parole dell’invidioso sulla persona che ne è l’oggetto; ma anche col sign. della locuz. precedente); parla così solo per invidia. 2. Con sign. attenuato, il desiderio di avere anche noi il bene o la fortuna che hanno avuto altri: hai un aspetto così florido da fare i.; è una villetta che fa i. a molti; è degno d’i. chi riesce a sopportare senza lamentarsi le contrarietà della vita. Con senso più concr., la persona o la cosa che desta tale sentimento: ha un figlio bello e robusto che è l’i. di tutte le mamme.

Sarcasmo s. m. [dal lat. tardo sarcasmus, gr. σαρκασμός, der. di σαρκάζω «lacerare le carni» (da σάρξ σαρκός«carne»)]. – 1. Ironia amara e pungente, ispirata da animosità e quindi intesa a offendere e umiliare, che a volte può anche essere espressione di profonda amarezza rivolta, più che contro gli altri, contro sé stessi: parole, frasi,osservazioni piene di s.; parlare, rispondere con s.; fare del sarcasmo; sento del s. nelle tue parole; sentì la rabbia dentro di sé, qualcosa di molto vicino all’odio che avrebbe voluto esplodere contro quel s. assurdo e cattivo (Ugo Riccarelli). 2. Frase, espressione sarcastica: non risparmia a nessuno i suoi s.; i tuoi s. mi lasciano indifferente; il disgraziato imperatore tedesco, che Bonaparte ha tramutato da un giorno all’altro in imperatore d’Austria, è oggetto qui a Berlino di feroci s. (Alessandro Barbero).

Tolleranza s. f. [dal lat. tolerantia, der. di tolerare «sopportare, tollerare»]. – 1. La capacità, la disposizione a tollerare, e il fatto stesso di tollerare, senza ricevere danno, qualche cosa che in sé sia o potrebbe essere spiacevole, dannosa, mal sopportata: avere, mostrare t. per il freddo, per il caldo, per i climi più diversi; non t. dell’organismo per determinati medicamenti, dello stomaco per alcuni cibi; avere o non avere t. per un medicinale, per un farmaco (per la penicillina, per isulfamidici, ecc.). In biologia, t. immunitaria o immunologica (o anche immunotolleranza), condizione biologica particolare, che si può osservare in natura o può essere indotta sperimentalmente, caratterizzata dall’assenza di reazioni immunitarie a contatto con i proprî antigeni (la perdita di tolleranza verso antigeni proprî porta a malattie autoimmuni). In ecologia, legge della t., norma che definisce i limiti ecologici (quali alcuni fattori come luce, calore, acqua) che possono favorire o ostacolare l’accrescimento di un organismo in un determinato ambiente. 2. Il fatto di tollerare, nel senso di consentire o ammettere che qualche cosa esista, sia fatta, avvenga. In partic.: a. Atteggiamento teorico e pratico di chi, in fatto di religione, politica, etica, scienza, arte, letteratura, rispetta le convinzioni altrui, anche se profondamente diverse da quelle cui egli aderisce, e non ne impedisce la pratica estrinsecazione, o di chi consente in altri, con indulgenza e comprensione, un comportamento che sia difforme o addirittura contrastante ai suoi principî, alle sue esigenze, ai suoi desiderî: avere spirito di t.; ci vuole un po’ di t. per le idee altrui; pur essendo un uomo all’antica,ha sempre dato prova di t. nei riguardi dei giovani e della contestazione giovanile; Erasmo da Rotterdam fu l’assertore del principio della t.; la complessa storia del problema della t. religiosa, da parte degli stati, dei governi, delle comunità; l’«Editto di t.» di Costantino, quello con cui l’imperatore, nel 313, concesse libertà di culto ai cristiani; t. zero (per calco dall’ingl. zero tolerance ‹∫ìërou tòlërëns›), complesso di decisioni e di provvedimenti legislativi miranti a perseguire i reati minori senza praticare sconti, e, anche, qualunque atteggiamento di radicale rifiuto a giustificare in qualche modo i reati in questione o i varî fenomeni che possano recare turbamento alla vita sociale o individuale: t. zero nei confronti di chi guida in stato di ubriachezza, dei disturbatori notturni, della criminalità, e sim. b. Nel linguaggio giur., il fatto che il titolare di un diritto consenta, con un contegno passivo, che altri eserciti il diritto a lui spettante; atto di t., atto compiuto con l’altrui tolleranza. c. Casa di t. (calco del fr. maison de tolérance), casa in cui viene esercitata, in modo organizzato, la prostituzione femminile, con la tolleranza esplicita (e quindi in forma legale) o tacita dello stato o dell’autorità; è nome più generico e neutro rispetto a postribolo, casino e al più letter. lupanare. 3. Tempo d’indugio consentito, rispetto alla data o al momento fissati, perché un determinato atto abbia inizio o compimento (cfr. il sinon. comporto): l’inizio delle lezioni è alle ore 8,30, con una t. massima di cinque minuti; il termine dei lavori deve avere luogo entro sei mesi dall’affidamento, con una t. che non potrà superare gli otto giorni. Con sign. affine, i limiti entro i quali è consentita una differenza qualsiasi, di carattere anche diverso da quello temporale, fra ciò che è stato fissato o progettato e la realizzazione effettiva; più in generale, nel linguaggio scient. e tecn., scarto massimo ammissibile tra il valore nominale e il valore reale di una grandezza fisica (per lo più espresso in unità relative: t. di 1 su 103 o anche, in percentuale, 0,1%). In partic., nella tecnologia meccanica, t. dimensionale, scostamento ammesso, nella fabbricazione industriale di un pezzo, tra le dimensioni definite dal disegno di progetto e le dimensioni effettive del pezzo costruito: più precisamente, la differenza tra la massima e la minima dimensione ammissibili; campo di t., l’insieme dei valori intermedî.


A presto blog, a risentirci miei lettori.

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