Vulcano
I 365 giorni che precedono l’impressione,
nero su bianco, di queste parole digitali, sono stati ricchi di emozioni e di sensazioni
davvero complesse, nonché decisamente diverse, quasi opposte, tra loro.
In principio fu la luce, la
perfezione, l’assoluta certezza che la mia fede e la mia paziente e diligente passione
fossero state finalmente, ma soprattutto definitivamente, ricompensate da uno
stato di benessere imperituro ed eterno, creato da una miscela assieme, biologica ed artificiale, tale per cui nessuno,
nemmeno Dio, potesse convincermi che qualcos’altro avrebbe contato più del Vero
Amore, non per me almeno.
Ma come i protagonisti del “Paradiso
perduto” di Milton, anche io sono stato cacciato da quell’Eden irrazionale e
statisticamente improbabile; anche io sono stato costretto a vestirmi, a vergognarmi
della mia nudità ed a far le valigie di tutta fretta perché nuovi
inquilini, giovani e bellissimi, bussavano già alla porta, verde e rigogliosa,
di quel locus amoenus il cui canone di conduzione era divenuto, ahimè,
troppo oneroso per me e per le mie capacità economiche.
Qualche lacrima, alcuni
singhiozzi ed alla fine, nell’arco di quale giorno, una sorprendente scoperta:
quel tempo di felicità, per sempre finito, non aveva attraversato i miei occhi inutilmente,
ma era venuto a farmi visita con lo specifico scopo di educarmi, di attizzare e ravvivare la fiamma di quella curiosità che, seppur impercettibilmente, brillava ancora in
me. Forse quella lezione era piombata su di me un po’ troppo all’improvviso,
schiacciandomi con la sua obesa presenza...ma non senza ragione, non senza un
perché. Forse quel dolore altro non era che una medicina, un antidoto alla mia
patologica consapevolezza di aver afferrato, una volta per tutte, la mia ombra,
mettendo così la parola “fine” alla mia storia alla quale, ancora,
evidentemente, mancavano altri capitoli e, forse, persino altri volumi.
E così mi son mosso, mi sono
sforzato di smetterla di puntare ad una meta, concentrandomi finalmente sul
percorso, abbeverandomi alle acque di quel fiume che, fino a quel momento,
aveva funto solo da strada ferrata, da sentiero da percorrere, da via da
seguire: ed ad ogni sorso, ad ogni sguardo, la mia sete è iniziata ad aumentare, divenendo
quasi inestinguibile, regalandomi mille altri grembi all’interno dei quali
far germogliare agrifogli, rose e di girasoli, donandomi mille altri stomaci
da riempire con elio e idrogeno, capaci di contenere, persino, venti monsonici
e intere tempeste. E di questa ritrovata conoscenza, di questo ammonimento regalatomi
dalle labbra di un saggio Siddhartha di passaggio, ho fatto uno scopo di vita.
La mia cittadella, a ben vedere, non
era crollata, bensì era stata semplicemente attaccata da un popolo di soggetti
che ho considerato “barbari” sol perché non riuscivano a balbettare la mia
lingua: essa si ergeva su cinque titaniche colonne, ma solo una di esse era andata
distrutta, una soltanto era crollata al suolo sfracellandosi in mille pezzetti
grandi, ormai, poco più di "una moscerina". Ma rinforzato il primo pilastro, ristrutturato il
secondo, rinnovato il terzo ed ammodernato il quarto, cosa era cambiato in
superficie? Le guglie del castello erano forse crollate? E le strade,
contrassegnate da solide e immobili pietre miliari, erano forse andate in
rovina? E il mercato, le case, la sala del trono, non era forse tutto,
esattamente, come era sempre stato all’interno di quella πόλις che mi batteva nella testa, fungendo da cuore per un corpo dalle sconosciute
potenzialità? Tutto era salvo perché un nuovo assetto statico, dopo quell’invasione,
era stato ricercato e trovato: tutto era in piedi solo perché tutto
era catastroficamente mutato.
Ed al trecentosessantacinquesimo
giorno, dopo un viaggio che mi ha squassato il fegato, ferito i piedi e scorticato
le mani, ho finalmente compreso che il Vero Amore, che pensavo perduto nel
regno di Adamo ed Eva, non era scomparso, non mi aveva abbandonato, ma si era
trasformato in un vulcano sottomarino, in una guida, in un un’unità di misura della
mia futura umanità: quella lava, per quanto sommersa, è e resterà incandescente
in eterno perché se Eros è un pericolosissimo e divampante incendio che brucia
foreste e centri abitati, Agape è un cocentissimo magma che nemmeno l’acqua più
fredda è in grado di estinguere.
Son grato sia per aver perso la
guerra che per aver perduto la bussola: questa sconfitta ha dilatato a
dismisura le pareti del mio cuore, rendendole elastiche e donando loro la capacità
di resistere ad ogni urto e ad ogni colpo.
Esistere è così straordinariamente
complesso e così incredibilmente difficile che non c’è posto per odio, rancore,
acredine o rappresaglie: sposando la vera Curiosità, è vero, mi son salvato, ma, con
mia immensa gioia, sono riuscito a farlo solo fino alla fine di questa era,
solo fino a quel momento di ritrovata morte interiore che mi permetterà di rinascere
con una nuova forma, con un nuovo aspetto, ma con quel vulcano di consapevolezze,
certezze e lezioni ancora chiuso nel mio petto sommerso, in una profondità in
cui il silenzio genera la vita e dal buio zampilla una vermiglia, bruciante e nutriente saetta di luce.
Immagine creata con AI
❤️
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