Ho fatto un sogno
Ho fatto un sogno.
Ero sereno, silenzioso, solo, in mezzo ad una folla di amici, vecchi e nuovi, in un ampio salone di una casa sconosciuta e bellissima che mai potrò permettermi.
C'era della musica, c'erano risate, c'ero io, fermo, davanti ad una finestra, incantato dal mare immobile di un prato verde perfettamente curato, uno di quelli che nei film fa da cornice ad una villa piena di segreti, rancori e malumori. I lampadari erano di cristallo, i tappeti di un bordeaux scuro e brillante, il parquet splendeva colpito dalla luce, fioca ma decisa, di un sole estivo pomeridiano che filtrava dalle grandi finestre di una stanza sospesa nel tempo, resa leggera e fluttuante dalle quelle nebbie oniriche che amalgamano tutti i confini, i bordi e gli angoli, regalando significato e sostanza solo alle rappresentazioni che Morfeo, artista sagace, ha scelto di mettere a fuoco e di conservare nel nostro immaginario.
Quel chiassoso quadretto era però solo il dolce preludio di una pace effimera e debolissima, squassata, distorta e spezzata dall'ingresso di un uomo accompagnato da due anonimi valletti.
Il terzetto era ben vestito, un tripudio di barbe colte, fresche, nette, disegnate dal profumo di costose creme che donavano, a quei volti severi, un fissità quasi innaturale, ma non per questo priva di fascino. Dei dipinti su piedi, fuggiti dalle pesanti cornici in legno che li incatenavano dentro un perimetro sicuramente troppo angusto e troppo buio. Tre esseri bellissimi che, ghiotti di luce e colori, hanno conquistato l'attenzione di tutti, provocando le ire di quel sole invidioso che ha preferito tramontare pur di competere con quegli zigomi giovani e tondi, pervasi da un filo di vermiglio rossore che urlava alla ben più modesta luna tutta la floridezza che un corpo tonico e giovane riesce a sprigionare anche solo accennando un sorriso.
Quel sogno, appena iniziato, così illogico ma così simbolico, ha mutato forma quando mi sono reso conto di non potermi più muovere, di non poter scappare, di essere bloccato, lì, costretto a subire l'indifferenza dei passi dei tre astanti: neppure uno sguardo si è poggiato sui miei occhi vitrei e fissi, solo qualche maldestra vocale, caduta dalle rosse labbra di uno di loro, ha osato sfiorare il mio orecchio, per sussurrarmi, con non poca perfidia, che io non esistevo e che uno spirito, senza corpo, altro non è che brezza ammuffita.
Tale omissione, tale impalpabile e crudele sensazione di incompiuto, mi ha fatto mancare l'aria: persino la mia laringe, come d'incanto, ha dimenticato la sua funzione, permettendomi di emettere un singolo, breve ed umido "oh".
Grazie ad un respiro decisamente troppo profondo, però, mi sono finalmente svegliato, constatando, fin da subito, come quell'unica lacrima ancora incastonata all'estrema sinistra del mio occhio più chiuso, conteneva, da sola, un cosmo di dolore che ero finalmente pronto a distruggere con un brutale e deciso colpo di mano.
L'indifferenza provoca echi che non hanno bisogno di pareti per poter risuonare, in eterno, oltre i meridiani ed i paralleli che noi conosciamo.
Eppure, nonostante quel tonfo rimbalzi e viaggi oltre la luce, oltre il tempo, al di là della nostra stessa finitudine, mi è bastato svegliarmi per distogliere lo sguardo da quel buio in cui ogni suono non cessa mai di torturare i nostri sensi.
Ho fatto un sogno, ma ho aperto gli occhi e sono qui: sono vivo, di nuovo, sono io.
(Il sogno - Frida Kahlo, 1940)
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